<<Allora?! Adesso non fai più tanto lo spiritoso, eh?>> dice il musulmano affondando la canna della pistola dentro la bocca e spingendomi contro la vetrata del 67° piano del Palazzo dei Crediti.
Ditemi voi cosa dovrei trovarci di spiritoso in una situazione simile. Basta guardarmi intorno per capire che se anche volessi, continuerei a non trovarci niente da ridere: a un paio di metri, la faccia rivolta a terra, si trova il mio vecchio amico e compagno di mille avventure Dum-Dum, mentre alle mie spalle, una scatola bianca un metro per un metro, con il display che conta il tempo al contrario, ormai quei 00:05:15 restanti prima di innescare circa centodieci chili di tritolo.
Siamo caduti in questa fottuta trappola come degli idioti. Ma il rimpianto è inutile quanto la compassione. Se solo mi togliesse questa canna dalla bocca, forse potrei dire qualcosa che non sia banale, ma che almeno mi faccia sentire meglio.
Ci hanno fottuti fin dall’inizio. Da quando il sole si è spento, lasciando il posto alla luna…
COUNTDOWN -6
“Qui è Megan McLaren col
notiziario WOSB delle 21:00 per riferirvi gli ultimi sviluppi della situazione
mediorientale. Stamani il presidente, come aveva annunciato ieri sera, ha
inviato ulteriori rinforzi alle truppe di terra per contrastare la resistenza
terroristica insediata nel palazzo presidenziale di Ab-Dakka.
Il contingente di 500 marines è salpato in nottata da una base segreta sulla
costa atlantica, si ritiene che raggiungerà il confine di guerra entro la notte
in corso. Il loro arrivo sarà determinante per la liberazione della sede
presidenziale di Ab-Dakka. Secondo fonti in terra
mediorientale, i terroristi sono stati colpiti più volte dal fuoco amico, ma
risulta difficile tenere testa al numeroso contingente che, secondo le stesse
fonti, ‘sembra rifornirsi di numerosi miliziani ogni giorno che passa’. Leader
terroristici come Ben-Al-Kosva e Der-Mas-Foj battono le strade di Ab-Dakka
e provincia convincendo giovani cittadini ad armarsi per contrastare l’esercito
americano, giovani dai 15 ai 25 anni che imbracciano le armi senza neanche
essere addestrati, votando la loro anima alla guerra santa. Il presidente
americano Gorge W. Bush ha invocato la nazione araba affinché non si lasci coinvolgere
da simili millantatori che vogliono solo confondere le idee spingendo degli
innocenti al suicidio. A quanto risulta, una milizia egiziana è in viaggio
verso Ab-Dakka, per congiungersi con la milizia
terroristica, questo è proprio uno dei punti di forza che hanno spinto il
presidente americano a inviare un altro contingente negli ultimi giorni.
“Questo,” riferisce il presidente nel suo ultimo discorso alla nazione “è un
momento che deve vederci compatti contro un unico nemico, quello del terrore. Quindi
dobbiamo spazzare via ogni dubbio e incoraggiare i nostri giovani a combattere
la guerra che un giorno ci renderà liberi da ogni paura, accompagnandoci nei
giorni che seguiranno al superamento di questi gravi ostacoli. Certo non sarà
semplice.” aggiunge il presidente, “Ma il destino dei nostri figli, e dei figli
dei nostri figli dipende da noi.”
Saranno per queste
argomentazioni che assillano la mente del nostro presidente che Laura Welch ,
la moglie del presidente, si è abbandonata a Jack Winters,
regista e attore di ‘Fulmine dell’anima’. L’abbiamo vista ieri sera alla cena
d’inaugurazione dell’orfanotrofio Gallagher’s Mouth di Manhattan seduta al suo tavolo e accompagnarsi
entrambi fuori dopo il culmine dei festeggiamenti lanciandosi occhiate che neanche
uno dei migliori fotografi di Hollywood avrebbe potuto creare artificialmente.
A voi ascoltatori le foto che la troupe di Harry Kerman ha scattato ai due
protagonisti della serata di ieri sera, che, tengo a precisare come mi è stato
affermato da Harry stesso, non hanno voluto rilasciare alcuna dichiarazione ed
hanno minacciato di querelare il nostro notiziario se fossero stati più
insistenti. A te la parola, Harry, visto che eri in prima fila ieri sera e…”
Il locale è uno di quei classici luoghi dove si ritrova il peggio della feccia. Ogni grande città ne ha uno. Così come le piccole città. Sono in proporzione. Ed è proporzionale quello che ci si trova dentro. Piccola Città, qualche rapinatore, qualche magnaccia, un po’ di balordi, Grande Città, serial killer, branchi di stupratori, mercenari. La città in cui ci troviamo non appartiene né alla prima categoria, né alla seconda. La città in cui ci troviamo è New York, la più grande metropoli del mondo occidentale. Immaginatevi il locale, adesso. Certo, non era niente in proporzione allo Slim’s o a quei locali su a South Streeth, ma restava sempre un posto poco raccomandabile.
La musica che imperversa è uno dei primi rock partoriti in territorio americano. Qualcuno beve seduto ai tavoli, qualcuno ronfa ubriaco sdraiato su un altro, altri si riuniscono per organizzare veloci tavoli di poker. Se non fosse per le facce dei due tizi che mangiano al bancone, si direbbe una delle solite serate. Il barista, Tony Bergonzoli, li conosce tutti. Lavora qui dentro da quando è nato. Il locale era di suo padre, poi suo padre è morto ed è passato a lui. Tony ha un figlio di dieci anni. In questo momento è a casa che dorme insieme a sua moglie. Tony sa che un giorno il timone passerà a lui, lo dà per scontato. Le cose vanno così, Tony lo sa benissimo, anche se non ha mai preso una laurea, non ha mai posato gli occhi su nessun libro, sa che certe cose vanno in una determinata direzione perché non hanno altre strade dove andare.
Se solo Tony avesse letto qualche libro in più, invece di leggere sempre e solo fumetti porno…
I due tizi lasciano i tovaglioli sporchi dentro al piatto, e mentre uno poggia i gomiti addosso al bancone, l’altro finisce l’ultimo sorso di birra. Il boccale vuoto si poggia sul tavolo, Tony gli lancia un occhio e continua ad asciugare il bicchiere. Il tono di voce è quello di un adulto. Tony non capisce le parole, si avvicina con l’espressione di chi vuole farsi ripetere la domanda.
<<Mio figlio.>> ripete la voce adulta <<Deve andare in bagno. Ce ne sarà uno, no?>>
<<Le scale alle vostre spalle.>> risponde Tony fermandosi e continuando ad asciugare il bicchiere.
I gomiti si staccano dal tavolo.
Tony resta davanti a loro ad asciugare il bicchiere. Quando si sblocca, posa il bicchiere davanti il lavello del bancone e allunga le mani al piatto davanti l’uomo:
<<Questi li posso portare via?>> chiede.
La voce non risponde. Deve essersi limitato ad acconsentire, visto che Tony prende i due piatti pieni solo di molliche e tovaglioli spiegazzati, e se li porta via. Sentiamo l’uomo muoversi, frugarsi addosso. Poi vediamo una mano, grande, callosa, che si poggia sul bancone lasciando una banconota verde rame. L’occhio di Tony torna ad allungarsi verso la direzione dell’uomo. Rumorosamente lascia cadere i piatti nel lavello e torna sui suoi passi, la pezza tra le mani, gli occhi alla banconota. Più si avvicina più si fa circospetto, finché non la raccoglie, guardandola attentamente. Era raro vedere un pezzo così grosso. La osservò su entrambi i lati, controllandone con l’esperienza che contrassegna la sua vita da barman il valore effettivo. Quando fu sicuro di ciò che teneva in mano, raggranellò delle monete, contandole più e più volte per essere sicuro di non sbagliare. Tony sapeva che clienti come quelli era bene tenerseli buoni, non rovinare la loro fiducia se voleva continuare a servirli. Si voltò e tornò verso di loro, ma entrambi erano ormai di spalle e stavano dirigendosi verso l’uscita.
<<Il resto!>> disse Tony.
L’uomo, sui cinquant’anni, stempiato, si voltò con un sorriso che trapelava due denti d’argento.
<<Puoi tenerlo.>> disse.
Il ragazzo al suo fianco alzò la cerniera del giubbotto verde militare e girò la testa verso il banconista, mantenendosi serio e distaccato. Non poteva avere più di venti anni, forse anche meno, dalla faccia e dal modo di fare si vedeva lontano un miglio che era il suo parente più prossimo.
Tony restò con le monete in mano. Guardò i due uomini dirigersi verso la porta. Il loro passo e il loro atteggiamento era sicuro e deciso da non lasciare scampo.
<<Grazie.>> disse prima che fossero fuori, e lo ripeté alzando il tono <<Grazie.>>
La porta si chiuse alle loro spalle facendo tintinnare i campanellini.
Il posteggio era flebilmente illuminato da qualche lampione. Su un lato sostavano dei grossi camion con rimorchio accanto dei rimorchi senza camion.
S. Fulton, c’era scritto sulla piastrina della giacca; seguì il figlio e si chiuse il giubbotto. Il respiro condensava all’aria. L’uomo adulto indossò un paio di guanti e continuò diritto verso il furgone nero che sostava in mezzo allo spiazzo. La S. sulla piastrina stava per Steven.
Suo figlio aveva scritto M. Fulton.
<<Se li meritava proprio, vero Mark?>>
<<Già.>> rispose Mark <<Hai visto che faccia ha fatto quando gli hai detto che poteva tenerseli!>> sghignazzò.
<<È un brav’uomo quello.>> continuò Steven <<Che ci possiamo fare, Mark. Questo posto non è adatto per quelli come noi, per le brave persone. A noi ci tocca solo lavare i piatti e romperci il culo tutto il giorno, mentre quei bastardi vanno a Wall Street in giacca e cravatta. Che mondo bastardo è questo, figlio mio.>>
Nei pressi del furgone Mark disse:
<<Vuoi che guidi io, pà?>>
<<Quante volte ti ho detto di non chiamarmi così.>> sbottò il padre, troppo lontano per potergli mollare un colpo.
<<Signore, volevo dire signore.>> si corresse Mark.
<<C#*, se volevo una figlia femmina ne avrei fatto una!>>
Mark raggiunse il mezzo e cominciò a battere i piedi per riscaldarsi. Suo padre lo raggiunse.
<<Allora, guido io?>>
<<Vuoi guidare tu?>> domandò Steven tirando fuori le chiavi del furgone.
<<Sì.>> rispose Mark tenendosi fuori portata.
<<Guido io, invece.>> disse stizzoso e si piazzò davanti lo sportello.
Mark si diresse verso il lato opposto del mezzo.
Il cielo non lasciava presagire niente di buono per la notte restante. Mark si sfregò le mani. Sentì alle spalle arrivare qualcosa e si voltò a guardare. L’ombra si muoveva bassa verso di lui. “Un cane” pensò Mark e strofinandosi le mani più energicamente disse:
<<Signore, ma che sta facendo? Si muore dal freddo qui.>>
Il pensiero successivo fu che se era un cane doveva essere bello grosso.
<<La serratura di questo coso s’è inceppata di nuovo.>> gridò di rimando il padre.
<<Non s’è inceppata. Sei tu che sbagli la chiave!>> disse stizzoso Mark mentre tornava a guardare dietro di sé, che razza di cane poteva essere così grosso?
Si paralizzò rendendosi conto che si era sbagliato. Ma era troppo tardi per fare qualcosa.
<<$#@, sei proprio una sputasentenze come quella *#@$* di tua madre!>> rispondeva Steven cambiando chiave, <<Non riesci mai a stare zitto vero?>> infilò la chiave giusta nella serratura e aprì lo sportello <<Non vi ho proprio insegnato un $#@, porca pu##@#$! Dovete imparare ad ascoltarmi! Hai visto? Era come ti dicevo! La serratura s’era inceppata. Questo furgone è troppo vecchio! Dobbiamo passare da un mio amico a Brooklin heights. Ha un officina. Ricordamelo che domani ci andiamo!>> spalancò lo sportello <<Che c’è Mark? Ti hanno mangiato la lingua?!>>
Alla sua domanda seguì un singulto soffocato, ma Steven non poteva sbagliarsi, era la voce di suo figlio.
Una pistola comparì istantaneamente nella sua mano e indietreggiò costeggiando il furgone, verso il lato anteriore. Poi la storia si ripete, come quella volta, trent’anni fa, in Vietnam. Si ripete, almeno come lui l’aveva sempre raccontata. Vide Mark apparire davanti il furgone.
<<Scappa papà!>> grida e un attimo dopo è atterrato da un ombra.
Steven si voltò e fuggì, come quella volta in Vietnam. Ma quella volta, c’era lui al posto di Mark. Ed aveva cercato di fuggire, sì, ma senza avvertire nessuno dei suoi compagni che vennero uccisi dai vietcong. Lui venne ferito alla schiena mentre scappava. Per poco il proiettile non gli colpì la spina dorsale lasciandolo su una sedia a rotelle per il resto della sua vita. Venne fatto prigioniero, un anno e mezzo in una cella immersa nella palude, cibo per le sanguisughe. No, pensava Steven mentre cercava riparo, non avrebbe fatto quella fine.
<<Lasciami bastardo! Lasciami!>> grida il ragazzo mentre cerca di colpirmi. Lo giro con la faccia contro l’asfalto e gli giro le mani dietro la schiena. Lascio la pistola a terra per un attimo, il tempo di stringergli un paio di bracciali magnetici intorno ai polsi e sulle caviglie, poi la raccolgo e mi getto all’inseguimento dell’altro. Sapevo che erano in zona.
Apro il contatto radio con l’orologio e lancio il segnale:
<<A tutte le unità, parla il comandante Fury. Chiedo rinforzi al Koala Pub, Sunset Strip, coordinate 15-18 nord. Emergenza Rossa.>> e chiudo il contatto, qualcuno capterà il segnale.
Il tizio entra dentro il locale con la pistola in mano. La situazione si fa pesante. In pochi secondi sono davanti la porta ma evito di aprirla. Mi getto di lato e vado sotto una finestra. Sbircio dentro.
Il tizio tiene sotto mira un po’ di persone, dà le spalle alla porta. Se entro rischio di fargli partire un colpo a discapito di qualche innocente. Poggio la schiena alla parete, tenendomi sotto la finestra. Pensa, Nick, pensa.
Segue un colpo di pistola. Ritorno a sbirciare dentro la finestra. Il barista è uscito dal bancone e tiene le mani contro la pistola che il tizio gli punta contro. Forse spera che non gli distrugga il locale. Stupido. Parlano, non sento cosa si dicono. Uno, Due, al Tre vado dentro.
UNO…
Sento il sibilo di un aircraft che plana nella mia direzione, come dicevo, sono arrivati.
DUE…
Uno sparo, qualcosa che va in frantumi, pesantemente.
TRE: spicco un balzo sulla finestra, frantumandola, rotolo a terra adocchiando la posizione del mio bersaglio. È a metà strada tra il bancone e l’entrata. Esplode un paio di colpi nella mia direzione, li sento piantarsi nel pavimento dove sono appena passato. Mi spingo più che posso verso il fondo del locale e trovo riparo sotto un tavolo che ribalto immediatamente. Sento un paio di colpi bussare sullo spesso legno. Ha una buona mira, il bastardo, anche se non avevo dubbi al riguardo, visto che si divertiva a fare il cecchino con i cittadini newyorkesi appostandosi sui tetti. Ma adesso non ha a che fare con uno sprovveduto cittadino, inconsapevole d’essere preso di mira.
Sento una finestra andare in mille pezzi e butto un occhio fuori dalla mia postazione. Il tizio ha smesso di spararmi e si è dato alla fuga nello stesso modo in cui io sono entrato, ma da un’altra finestra. Il barista è a terra insieme al suo sangue. Lo raggiungo, spacciato. Il colpo gli ha fatto un buco nel petto. I testimoni sono indecisi tra il continuare a fare quello che stavano facendo o dileguarsi.
La porta del locale si spalanca e tre agenti dello Shield si catapultano dentro, armi spianate. Gli faccio un cenno prima che mi sparino addosso.
<<È appena uscito da quella finestra.>> indico <<Il suo compare è immobilizzato nei pressi del furgone nero posteggiato qui fuori. Un agente vada da lui, un altro controlli il poveraccio qui a terra e l’altro venga con me. Non dobbiamo farcelo scappare.>>
Corro verso la finestra dalla quale l’uomo è uscito, la scavalco e torno all’aria fresca.
L’uomo ha fermato un auto che si dirigeva in direzione del parcheggio, spara contro le due persone che stavano dentro: il tizio accanto il guidatore fugge incolume, il guidatore piomba a terra appena il pazzo apre lo sportello. L’agente dello Shield che mi affianca si ferma accanto a me, la pistola sguainata. Lo guardiamo salire sull’auto e sterzare per tirarsi fuori dalla trappola.
<<Dove avete parcheggiato l’aircraft?>> chiedo all’agente.
L’agente mi ci porta, l’aircraft è fermo proprio davanti il locale. Ci alziamo in volo e con una manovra veloce voltiamo all’inseguimento del bastardo. Non posso farmelo scappare. Certamente non dopo averlo trovato. È un americano folle convinto di potersi ergere sopra gli altri uomini perché è questo che gli hanno insegnato. Gli hanno insegnato a fare la guerra, si vede da come ha commesso i suoi omicidi, e me ne rendo conto sempre di più standogli alle calcagna. È deciso e determinato. Deve essere stato un giovane sergente pieno di belle speranze, oppure ha ricevuto qualche medaglia per ciò che ha fatto in guerra. Con il suo agire vuole ricordarci quello che stavamo dimenticando, che è un eroe, che ha combattuto per noi, per il nostro paese. Adesso però è venuto il momento di ricordargli che il Vietnam è finito e che lui è andato in congedo.
L’aircraft lo raggiunge, gli siamo sopra. La sua auto sfreccia per la strada a tavoletta, per fortuna non ci sono altre auto. Faccio segno al pilota di abbassarsi di quota. Il pilota esegue la manovra, i metri che ci separano dall’automobile sono circa un paio. Scarto a priori l’idea di sparargli, non sa che gli siamo sopra, è bene continuare a farglielo credere. Rinfodero la pistola.
<<Stagli dietro e indica la nostra posizione alla Centrale Operativa.>> lascio detto all’agente, e salto giù dall’aircraft.
Piombo sul tetto dell’automobile a pancia sotto. Le mani cercano appigli laterali. Si stringono sulla presa, e comincio a sospettare di essere un pazzo incosciente, alla mia età non si fanno queste cose.
Il tizio dentro l’auto comincia a zigzagare a destra e sinistra della strada. Le ruote stridono sull’asfalto. Ad ogni movimento, gli scossoni fanno scendere il mio corpo verso il lato posteriore dell’auto. Le dita stringono forte, ma non possono tenere a lungo.
Un camion ci sfreccia contro, per un attimo mi ci vedo sfracellato addosso. Sfreccia alla nostra sinistra suonando due colpi di clacson. Forse se riuscissi a parlare con il tizio potrei farlo ragionare, sono stato anch’io un soldato al servizio di questo stato. Ma lui non me ne da la possibilità.
Le gambe pendono giù dal tetto della macchina sparata a folle velocità. con grande sforzo piego le braccia spingendomi sul tetto, il camion che è passato deve aver fatto paura anche a lui perchè la sua guida si è regolata. La posizione che assumo non mi permette di voltarmi per vedere se l’aircraft è sempre sopra, ma conto sulla fiducia. Ma se scopro che l’agente ha disobbedito agli ordini, giuro che la paga cara. Infilo una mano dentro la giacca ed incontro il sigaro, ma non è quello che cerco. Prendo la pistola e sparo sul parabrezza. L’auto riprende a zigzagare sconnessa.
Il movimento mi solleva le gambe per aria, le mani stringono come un maglio entrambe le prese. L’automobile va fuori carreggiata, sfonda la rete e sale per la cunetta sulla destra mantenendo il motore al massimo. All’asfalto si sostituisce il prato erboso della campagna, vedo gli alberi schivarci un paio di volte, i copertoni girano a vuoto sull’erba bagnata e lascio la presa.
Il prato attutisce la caduta, rotolo nel senso opposto. Sento il motore allontanarsi. Quando finalmente ho smesso di rotolare, guardo nella direzione presa dalla vettura. Sembra che il bastardo abbia raccomandazioni dall’alto. E finalmente l’auto si schianta. Sento il botto, il motore si spegne. Il silenzio della campagna è l’unico a restarci accanto.
Mi sollevo tutto intero. Ho perso la pistola da qualche parte e non ho tempo di cercarla. Corro verso l’auto. Potrebbe esplodere da un momento all’altro, non me ne farei niente di un cadavere.
Il cofano è aperto in due addosso un albero. Sento il rumore di un liquido che sgorga a terra, benzina. Afferro la maniglia ma lo sportello è bloccato. I finestrini sono frantumati, non riesco a vedere dentro l’abitacolo. Non c’è tempo per pensare, tra poco sarà troppo tardi. Chiudo il braccio e colpisco col gomito il vetro posteriore sul lato guida dalla macchina. Ficco la testa, ma non trovo nessuno. Un sibilo e un colpo mi si abbatte sulla schiena.
Stringo i denti. Mi volto cercando di afferrare l’oggetto usato per colpirmi, il bastardo ha perso anche lui la pistola se no mi avrebbe sparato. Ma le mani si agitano nel vuoto. Il bastardo, la testa sanguinante, la divisa militare stropicciata, ha un tronco tra le mani lungo un metro e lo sventola nell’aria. Il suo sguardo è carico di follia rabbiosa.
<<Ti pentirai amaramente di esserti messo contro di me.>> dice, si sente forte perché ha un arma.
<<Perdonami se te lo dico, ma ho avuto a che fare con tipi più tosti di te.>> rispondo.
Provo un movimento in avanti per valutare i suoi riflessi, ed anche se è ferito alla testa, dall’intensità del sibilo mi rendo conto che è ancora abbastanza reattivo. Mi sposto verso sinistra, tenendomi sempre frontale al mio avversario che fa altrettanto girando per il senso opposto. Poi, comincio ad indietreggiare allontanandomi dall’auto, mossa che stupidamente lui percepisce come paura. Lo vedo dal sorriso che gli si carica in faccia. Appena lo smorza, facendosi avanti, sono preparato, gli afferro saldamente il polso che impugna il bastone e affondo una ginocchiata sul suo stomaco. L’uomo si piega sotto il colpo. Alzo il braccio e abbatto il gomito contro la sua nuca. L’uomo cade sul terreno erboso. Non gli lascio il tempo di riprendersi, mi piazzo a cavalcioni sulla sua schiena e l’afferro da sotto il mento tirandolo indietro.
<<È finita, se ancora non l’avessi capito!>> ringhio.
L’uomo borbotta qualcosa, io spingo la sua testa ancora più verso dietro. Ma il fragore alla mia destra, la vampata e qualcosa d’incandescente mi finiscono addosso e mi gettano di lato. L’auto è esplosa. Il bosco si riempie di zaffate gialle, le foglie crepitano, pezzi di lamiera si muovono da un lato all’altro, piombano mortali da più parti.
Scivolo per il pendio allontanandomi dall’esplosione, perdo di vista il mio avversario. Aspetto che la maggioranza dei detriti ricadano, poi risalgo la cunetta e lì, dove l’avevo sconfitto, non c’è più traccia. Sorrido di stizza e guardo tra i filamenti delle fiamme che innaffiano la foresta.
Sento l’urlo e prima di riuscire a voltarmi, delle mani mi afferrano, e un grosso peso mi cade addosso. Rotoliamo per il pendio che avevo risalito, lottando furiosamente, cadiamo, scontrandoci sulla rete sfondata dall’auto, lì ci fermiamo. L’uomo ricolmo di rabbia ha una forza spaventosa, mi è sopra alla fine della caduta e alza le mani unite in un unico maglio, diretto verso di me.
<<Finirà solo quando lo vorrò io.>> dice e abbatte il colpo.
Riesco a sposare la testa in tempo, le sue mani finiscono contro il terreno. Gli passo un braccio intorno ai fianchi e lo spingo di lato, togliendomelo di dosso. Dietro di me, sulla strada provinciale sfreccia un altro grosso tir, pieno di luce, e sulla sua scia prosegue un sibilo, un rumore familiare, che plana su noi, proiettandoci un fascio di luce.
<<Non hai speranze.>> gli dico, la luce riverbera contro la targhetta cucita sopra la tasca verde <<Arrenditi Fulton, e forse la tua pena sarà meno severa.>>
<<Pena?!>> rimprovera l’uomo <<Ho già scontato la mia pena. Adesso dovrò avere quello che mi spetta, tutti gli onori che spettano ad un eroe che ha combattuto per il proprio paese.>>
<<Tu non hai fatto niente di onorevole, Fulton! Hai ucciso otto persone innocenti, che non avevano fatto del male a nessuno, tanto meno a questo paese. Sei tu che hai gettato questa città e i suoi abitanti nel panico…>>
<<Ti sbagli!>> grida l’uomo interrompendolo <<Io gli ho mostrato che si possono cambiare le cose. Gli ho mostrato che si può guarire dalle ingiustizie. Non era il Vietnam o il Golfo Persico, ma il mio paese, perché è lui che ha più bisogno di aiuto. Lui merita più aiuto di tutti gli altri paesi. Ed io ho comandato me stesso per contrastare e sconfiggere il male! E tu che non capisci fai parte di questo male!>> così dicendo, mi si scaglia ancora contro.
Mi abbasso in tempo per evitare la sua presa e lo disarciono spingendolo di lato. Fulton precipita indietro. Sento la carne lacerarsi, un lungo pezzo di ferro gli vien fuori dallo stomaco abbandonandolo in una posa innaturale. Uno dei paletti che teneva la rete di recinzione della statale lo ha passato da una parte all’altra.
Fulton sospira profondamente, ha un sussulto, sgrana le pupille, e mi fissa mentre mi avvicino senza più temerlo. Le luci degli aircraft posano a terra accanto a noi.
MANHATTAN – NEW YORK
Quando bussano alla porta sono le dieci meno un quarto, tra un ora Dum-Dum si sarebbe sdraiato sul suo comodo lettone a godersi il suo serial preferito, mentre i bambini stavano già russando nella camera accanto. Uscendo dal bagno, con la maglietta e l’asciugamano tra le mani, Dugan si chiese perché non fosse stato avvertito dal videocitofono.
Attraversò la camera da letto con le lenzuola piegate pronte ad ospitarlo, e affacciando sul corridoio incrociò Sean, che correva a piedi nudi verso la porta d’ingresso. Dum-Dum lo afferrò per il bavero del pigiama. Sean si voltò, sgranò gli occhi, e assunse un espressione d‘imbarazzo.
<<Dove stai andando tu?! Torna subito a letto che ancora è presto per andare a scuola.>>
Scott abbassò gli occhi, si girò e tornò verso la sua camera da letto. I colpi alla porta si ripeterono uguali, forti e insistenti.
<<Sì, arrivo, arrivo! Che modi!>> disse mentre camminava per il corridoio accendendo le luci.
Disinserì l’allarme, aprì la porta, e quello che vide non era quello che si sarebbe immaginato. Due marines si proiettarono dentro mentre un terzo restava davanti la porta a parlare:
<<Thaddeus Aloysius Cadwallander Dugan?>>
<<Si.>> rispose Dum-Dum <<A cosa devo la vostra visita?>>
<<Abbiamo qui un mandato di perquisizione per la sua abitazione firmato dal Giudice Militare su istanza del Generale Aaron Frederick Chambers, comandante della Sezione Antiterrorismo dell’Esercito Americano.>>
<<Ehi!>> sbottò scontrandosi col sergente che stava per raggiungere gli altri due alle spalle di Dum-Dum <<Ma chi vi credete di essere?!>>
<<La invito a lasciarci operare affinché i miei uomini possano confutare la presenza di armi ed esplosivi all’interno della sua abitazione.>> continuò il soldato facendo un cenno agli altri due marines che cominciarono ad avanzare per il corridoio.
<<Non so cosa vi siete messi in testa ma forse non sapete con chi avete a che fare...>>
<<Sappiamo benissimo chi è lei, signor Thaddeus Cadwallander Dugan, e cosa rappresenta. Proprio per questo la pregherei di non interferire con gli ordini che il comando militare ci ha assegnati e di predisporsi affinché vengano fatte le opportune verifiche. Pertanto riferisca spontaneamente la presenza di armi all’interno della sua proprietà prima che vengano trovate dai soldati che sono andati in perlustrazione.>>
<<Ehi, ragazzi! Dovete essere ammattiti, per dio! Ci sono solo i miei figli!>> Dum-Dum raggiunse uno dei soldati sul corridoio e lo spinse contro la parete <<Come membro dell’Organizzazione delle Nazioni Unite vi invito a …>> ma le parole soffocano quando dalle sue spalle la presa si stringe intorno al suo collo, e la voce del sergente si fa forte e chiara contro il suo orecchio:
<<L’avevo invitata a collaborare, ma lei sta opponendo resistenza.>>
<<Per come sono andate le cose, mi sembra di non aver ricevuto nessun ‘invito’,>> dice Dum-Dum piegandosi in avanti con uno scatto e scaraventando il sergente sottosopra contro la parete, accanto l’altro soldato << ma solo ordini.>>
Il sergente piomba con la testa a terra. Il marine si toglie il fucile dalla spalla e usandolo dal calcio cerca di colpire l’irlandese in testa, ma l’esperienza dell’anziano vicedirettore dello Shield gli fa evitare il colpo. Le sue mani afferrano il fucile e lo strappano al soldato.
<<Credo proprio che non abbiate capito chi vi trovate davanti.>> gira l’impugnatura del fucile e dirige la canna verso i due soldati, uno con la schiena al muro, l’altro, il sergente, mentre si sta sollevando da terra.
<< Zio.>> grida Sean nel corridoio, correndogli contro. Dietro di lui c’è Mary, e ancora dietro la sagoma del terzo marines che viene fuori dalla camera dei suoi nipoti, il fucile sollevato in segno di minaccia.
Il sergente si solleva da terra.
I figli di Dum-Dum gli sbattono contro le gambe, abbracciandole e ripetendo “Zio”.
Dugan spiana la canna del fucile sulla faccia del sergente e aggrotta le ciglia.
<<Qualcuno vuole spiegarmi cosa sta succedendo?>>
<<Le abbiamo chiesto di collaborare, signor Dugan. La sua resistenza può essere fraintesa come sinonimo di colpevolezza, e a salvaguardia del popolo americano, l’esercito ha diritto di chiarire la posizione di tutti coloro che calpestano il territorio Usa quando ne sia richiesta necessità.>> spiega il sergente come se stesse leggendo un libretto d’istruzioni. <<In questo momento, lei sta puntando un arma carica e senza sicura contro due esponenti dello Stato Americano, pertanto diviene perseguibile legalmente perché sta commettendo reato.>>
Dum-Dum stringe gli occhi. Con la coda dell’occhio guarda il terzo marines alla sua destra con il fucile alzato. Sulle gambe sente le mani dei suoi figli stringersi ai pantaloni del pigiama, le loro facce spingersi contro le sue gambe.
Il sergente allunga le mani verso la canna del fucile che Dum-Dum gli tiene puntato addosso:
<<Restituisca l’arma senza fare storie, signor Dugan. Se non ha niente da nascondere, andremo via con le scuse del governo americano, ma ci lasci svolgere il nostro lavoro.>>
Dum-Dum sa che potrebbe farcela contro tutti e tre. Ma è consapevole che i grilletti si schiacceranno, che i proiettili vagheranno, che i suoi figli guarderanno, rischiando di essere feriti.
L’indice di Dum-Dum si sposta dal grilletto. Alza la canna della lunga arma verso l’alto. La porge alle mani tese del soldato.
HARLEM – NEW YORK
La limousine scura, senza contrassegni, procede lungo il marciapiede a velocità sostenuta. Si ferma davanti il portone di una bassa palazzina. Lo sportello posteriore si apre. Il lungo tacco di una scarpa da donna si poggia sul marciapiede.
Una figura snella uscì dall’automobile. Indossava un cappello a tesa circolare e un lungo spolverino, entrambi di velluto verde, verde come l’erba quando è umida.
Dall’auto, una mano passa alla donna un foglio di carta piegato in due. La donna lo lascia sparire sotto il soprabito e si gira in direzione del portone di legno scuro. Ritta su quella strada fredda e scura, s’immobilizza e con uno scatto abbassa la tesa del cappello sugli occhi, con altri due movimenti veloci e coordinati, stende i guanti sulle lunghe dita.
Lo sportello si richiude e la limousine riparte alla stessa andatura con cui era arrivata.
Un piede dopo l’altro, su tacchi alti 15 centimetri, la donna avanza fino alla porta e bussa. Con un colpo secco lo spioncino si apre. Un paio d’occhi scuri affacciano dal buco, vanno via, lo spioncino si chiude e la porta si apre. La donna varca la soglia e tira diritto, su per le scale. Le mani dell’africano barricano la porta dall’interno con una serie di mandate.
Oltre la rampa di scale solo una porta. Appena i suoi tacchi passano l’ultimo gradino, la porta si tira indietro e un fragore improvviso di musica viene fuori. La donna, con il volto sempre dietro il cappello, viene accolta da tre grossi neri in tenuta da rappers. Solo quando è dentro la stanza vede gli altri due neri con i mitra nelle mani ai lati della porta. Appena i tre neri le si avvicinano allungando le mani, la donna ha uno scatto indietro e rapidamente estrae la pistola da sotto lo spolverino, lasciandola penzolare dal manico, e gliela passa. I bestioni raccolgono l’arma, se la passano tra le mani e ritornano con gli occhi fissi alla donna. Senza proferire parola, assordati dalla musica che lanciava slogan minacciosi verso i ‘le razze bianche’, la donna stese il braccio sinistro e una piccola dillinger passò sotto la manica e gli balzò in mano. La porse ai suoi assalitori, ma il loro volto non si era ancora persuaso, anzi sembrava più torvo.
Sotto il cappello la donna sorrise. Alzò le braccia e fece un giro su sé stessa mostrando che non aveva nient’altro addosso. I negri si guardarono, qualcuno tirò fuori un individuatore di metalli, lo passarono a un centimetro sulle curve sinuose di quel corpo che sembrava disegnato.
Sulla sinistra dell’ingresso, la stanza finisce dentro una discoteca per neri arrabbiati. I tre bestioni la scortano per quella direzione, lungo i corridoi che girano sul perimetro della discoteca dove dabbasso un orda di gente balla scalmanata e ripete gli slogan della canzone a squarciagola. Le luci colorate li accompagnano.
Uno dei neri, quello che camminava più avanti, apre la porta ed entra, seguito prima dalla donna, alle spalle l’altro bestione. Il terzo dei neri che la scortavano resta all’esterno, chiude la porta e ci si piazza a braccia conserte, occhiali scuri, davanti.
Neon si accendono. Adesso la donna vestita di verde si trova con due dei rapper neri dentro un parcheggio in disuso che un tempo affacciava sulla strada posteriore l’entrata. Le saracinesche sono abbassate e al posto delle auto posteggiate sostano delle scatole, una sull’altra, a formare pareti e piramidi alte da un metro e mezzo in su. La donna li segue verso l’altra porta.
Un ultimo schizzetto e Vincent Van Suretè avrebbe potuto dichiarare guerra anche alla Francia.
La banconota girata su sé stessa cade sulla superficie di vetro e rotola fino al bordo dello specchio. In controluce restano alcune briciole bianche. Il polpastrello rosa sotto la dura pelle scura si posa sulla polvere portandosi le briciole in bocca, strofinandole contro i denti grigiastri.
Appena sente la porta chiudersi, apre il cassetto del tavolo, gli spinge lo specchio dentro e lo richiude, poggiando i gomiti sul tavolo e assumendo il giusto tono. Vincent aggiustò l’asse degli occhiali scuri sul naso per l’ennesima volta.
Dal corridoio giunse prima il rumore dei tacchi che echeggiavano per quei luoghi umidi e vacui, poi dall’oscurità viene fuori Boris, la sua guardia del corpo, e dietro di lui la donna con il cappello rotondo. Era la seconda volta che Vincent la vedeva, anche questa volta il suo pensiero è sempre lo stesso…
La donna si ferma proprio davanti Vincent, i due rapper prendono posizione, Boris a sinistra e Willy a destra masticando la chewingum con un fastidioso e rumoroso movimento. La donna allunga il braccio verso Vincent e lascia cadere sul tavolo il foglio piegato in due. Vincent apre il foglio e lo legge. Lo ripiega e lo passa alla donna che stava passandogli una penna di legno. La donna ritira il braccio con la penna e fa un passo verso il tavolo guardando da sotto le tese spioventi, uno sguardo glaciale incontra gli occhi del nero, oltre le lenti scure.
La penna di legno sparisce sotto il soprabito verde, due dita si posano sul foglio bianco poggiato sul tavolo. Il loro sguardo si mantiene sempre saldo.
<<Sei proprio convinto di aver preso la decisione giusta.>> dice la donna aprendo la bocca per la prima volta, con quel tono sarcastico proprio delle donne <<O vuoi ancora un po’ di tempo per pensarci?>> guarda l’orologio al polso <<Ti restano circa venti minuti.>>
<<Senti bella,>> sbotta Vincent <<ti avevo già risposto l’altra volta e come vedi la risposta non è cambiata. Non so se quello che dici è vero, anche se a me sembra una grossa palla, ma voglio concederti il beneficio del dubbio. Dopotutto, se accadrà quello che dici tu, a me può solo fare piacere, ma se non accadrà, io condurrò sempre la vita di sempre, che non mi dispiace affatto, e mi dimenticherò di te e di tutta questa pagliacciata. Quindi, non ti conosco, è la prima volta che sento parlare di questa Congrega, e non farò patti con nessuno che non possiede almeno lo stesso colore della mia pelle. Ritieniti fortunata di avermi parlato per la seconda volta senza che ti abbia fatto niente di dispiacevole e levati di torno che ho problemi più importanti da risolvere.>> detto questo, Vincent abbandona la schiena alla poltrona.
La donna resta immobile, le dita aperte sul foglio posato sul tavolo, prese nuovamente la matita e la porse a Vincent. Vincent accavallò una gamba sul bracciolo della poltrona e si piegò su un lato.
<<Ti ho già detto di andartene, ma vedo che fai finta di non sentire. Forse comincio a capire perché ti ho sempre tra i piedi. Non vedi l’ora che il buon vecchio Van Suretè ti dia una bella lezione vero? Quel biglietto è solo una scusa. Sì, ti ho capito, donna! Sei una di quelle che gli piacciono le maniere forti,vero?>> Vincent ritorna composto, poggia i gomiti sul tavolo e ritorna a guardare gli occhi della donna, che non si è scomposta neanche per un secondo dalla posa che ha assunto, la mano sul foglio, la penna tesa verso Vincent. Come un serpente che fissa la preda.
<<Avete capito ragazzi! La santarellina!>> bofonchia Vincent ai suoi amici che sorridono di rimando <<Mi sa che stanotte ce la spasseremo brutalmente con una femmina bianca.>>
<<Mi spiace contraddirti, Vincent, ma tu stanotte non farai proprio un c#@!>> dice la donna stringendo i denti <<Ho cercato di salvarti la vita, ma sei troppo ostinato per i miei gusti.>>
<<Ehi, dì un po’ bella. Stai cercando di minacciarmi?>>
<<Ed io non ho pazienza!>> sentenzia la donna piantando la penna sul braccio di Vincent e schiacciando l’estremità superiore col pollice sulla parte anteriore, premendo uno stantuffo fino in fondo. Vincent si tira indietro, sollevandosi, la sedia cade a terra.
<<Che c#!$ fai?>> sbotta stringendosi il braccio ferito <<Che cosa mi hai fatto?>>
I neri alle spalle della donna fanno un passo in avanti, si bloccano indecisi.
<<Ti avevo accennato che stavo cercando di salvarti il c$##, no?>> risponde la donna sollevandosi dal tavolo e intascando il foglio di carta.
<<Fa male c#!$!!>> continua Vincent con la schiena poggiata alla parete <<Brucia! Mi brucia tutto! Cosa mi hai fatto, maledetta pç#$##$!!!>>
<<Ti ho iniettato un composto chimico di mia invenzione dentro un arteria. Gli effetti sono devastanti, a contatto del sangue acquista la velocità del flusso e appena arriva al cuore accelera i battiti così velocemente che in 20 sec si sarà dilatato in ogni vaso sanguigno. Dovresti vederne i risultati.>>
<<P#]##$#! Maledetta t%$#! Avete sentito che ha detto?! Fatela fuori! Ammazzatela!>> spasmi gli percuotono il corpo <<Che male!!!>>
All’unisono i due neri estraggono le pistole e le puntano alla testa della donna, uno a destra, l’altro a sinistra.
Adesso la donna sorride, ma sotto le tese larghe nessuno può vederlo. Poi, senza scomporsi, si toglie il cappello e un fascio di lunghi capelli neri le ricade dietro la schiena, sul corpo, ondeggiando come fossero vivi.
<<Che aspettate!>> grida Vincent contorcendosi su sé stesso per mantenersi in piedi <<Sparate a quella troia!>> le pistole vibrano nelle loro mani, il dito sul grilletto <<Che state aspettando! Ho detto di ammazzarla! Fatele esplodere la testa!>>
<<Capo.>> dice Boris con un filo di voce, <<Capo, stavo pensando…>> ripete con più decisione.
<<Chi cazzo ti ha detto di pensare! Ammazzala!>>
Boris lancia uno sguardo al collega e ritorna a parlare:
<<Stavo pensando che se la uccidiamo, come facciamo a salvarla. Deve avere un antidoto al veleno che le ha iniettato, o almeno deve conoscere una cura…>>
<<Vero capo.>> risponde Willy.
<<E allora torturatela. Stupratela. Fate quello che $## vi pare, ma fate cessare questo dolore…>>
<<Allora femmina.>> dice Boris, muovendo la pistola dietro la nuca della donna <<Da dove vuoi che cominciamo?>>
<<Cos’è che volete?>> domanda la donna mentre posa il cappello sul tavolo.
<<L’antidoto!>> sbotta Boris.
<<Già!>> rimbrotta Willy <<Dacci l’antidoto!>>
<<E chi ha detto che esista un antidoto. Un veleno è tanto più letale quando non esiste un rimedio per poterlo annullare, non lo sapevate?>> e così dicendo, ruota le braccia alle sue spalle, le solleva e le abbassa a cingere le braccia stese dei due neri. Fa leva su entrambi gli arti spingendoli verso di sé, le due pistole s’incrociano e sotto la ferrea presa si posizionano contro il nero addossato alla parete, piegato in due, preda di forti spasmi.
Vincent gira la testa un attimo prima che le mani della donna avvolgano le pistole, i grilletti si schiacciano contemporaneamente, le canne brillano. Appena i proiettili lo raggiungono, il suo corpo esplode dall’interno, brandelli di carne schizzano sul tavolo, una chiazza rossa si alza fino al soffitto.
Stavolta il sorriso della donna sarebbe visibile a tutti, se non fossero colpiti da quello che è successo al loro capo.
<<Al contrario di lui,>> riprende la donna <<voi avete constatato gli effetti del siero che ho inventato. Allora, che ne pensate?>> domanda, e utilizzando le loro braccia come appoggio, salta e con una capriola in aria si piazza alle loro spalle.
Mentre Boris viene atterrato da una potente gomitata, Willy viene sgozzato dalle lunghe unghia bianche. La pistola di Boris volteggia nell’aria priva di padrone finché la mano della donna non la preleva a mezz’aria, impugnandola e voltandola verso il legittimo proprietario.
<<Che dici, negro?>> chiede la donna al nero seduto sul pavimento <<Vieni con me, o vai con loro?>> e Boris non può fare a meno di acconsentire <<Perfetto! Sei più intelligente del tuo capo, almeno. Avanti, negro, alzati!>>
L’uomo passa dalle quattro zampe prima di tirare in piedi la grossa stazza del suo corpo. Nel frattempo, la donna ha raccolto la pistola dell’altro nero e si è armata anche l’altra mano. Poi si fa condurre da Boris verso la direzione da cui sono arrivati. Nessuno avrà sentito gli spari, coperti dal frastuono della musica, entrambi lo sanno. Per qualcuno è un bene, per un altro è male.
Ripercorrono la strada, passano per il vecchio parcheggio, poi nel corridoio si fermano davanti la porta che li separa dalla discoteca.
<<Sai perché ti ho lasciato vivo vero?>> dice la donna <<Quindi fai bene il tuo lavoro e forse non ti ucciderò. È questo l’unico modo per venire fuori da questa tana di scarafaggi.>>
<<Sì.>> risponde Boris.
<<Fatti aprire la porta allora. Digli che ti hanno mandato a prendere qualche cassa di birra, che i discorsi vanno per le lunghe e che abbiamo la gola secca. Niente scherzi, mi raccomando. Ho il grilletto facile, e tu saresti il primo a lasciarci le penne.>>
Boris apre uno sportellino accanto la porta e schiaccia un bottone, mentre la donna si posiziona lateralmente all’apertura della porta.
Il bottone accende una luce all’esterno, un piccolo riverbero rosso si fissa tra le luci intermittenti della discoteca, avvertito dall’uomo di guardia. La feritoia si apre, Boris si trova gli occhi del collega davanti.
<<Aprimi.>> dice Boris.
<<Che c’è? Dove sono gli altri?>>
<<Stanno chiacchierando, una palla! Mi hanno mandato a prendere qualcosa da bere.>>
Mentre le mandate si disinseriscono, Boris si asciuga la fronte dal sudore. Al primo movimento della porta verso l’interno, la donna allunga la mano afferrando quella del tizio che sta aprendo, e lo tira verso di sè. Appena incrocia l’uomo, gli punta la pistola al petto e fa fuoco.
Il corpo cade a terra con un tonfo sordo. La stessa mano che aveva afferrato l’uomo, afferra Boris e lo spinge sul corridoio invitandolo a precederla. Lei gli cammina alle spalle, tenendogli una pistola puntata alla schiena, e l’altra bassa per non destare attenzione. Passano tra i fasci di luce, raggiungono il corridoio dalla quale la donna è arrivata.
Boris sembra tentennare prima di affacciarsi all’ingresso. La donna gli spinge contro la canna della pistola e Boris appare ai compagni di guardia all’entrata. In questo frangente sono distratti dalla perquisizione di tre nuovi arrivati. La donna e il nero avanzano, avvicinandosi agli uomini all’entrata. Ai lati della porta ci sono sempre i due di guardia col mitra a tracolla.
D’un tratto alle spalle:
<<Hei ragazzi! Ma chi è quella? Demi Moore?>> il commento del nero viene udito da tutti i presenti che si voltano verso di lui e, inevitabilmente, verso coloro che cercando di passare inosservati, si ritrovano catapultati al centro dell’attenzione <<E io che avevo sentito dire che era tappa!>> continua il nero.
La donna passa entrambe le braccia sopra le spalle di Boris, da entrambi i lati della testa, e fa fuoco sul mucchio. Uno dei neri col mitra cade a terra colpito alla schiena, un nero di guardia si schianta sulla parete di fronte col petto sfondato. I tre nuovi arrivati si dileguano dalla porta. Il nero col mitra spara una raffica che colpisce Boris ad un fianco, la donna continua a sparare con entrambe le pistole, usandolo come protezione. E il nero col mitra viene colpito prima ad una spalla, poi all’altra, un colpo gli centra lo stomaco, altri due il petto sotto la gola.
La donna tira Boris che fatica a camminare per la ferita, ma raggiunge insieme alla donna la porta d’ingresso, e mentre sta per crollare a terra, viene spinto energicamente in avanti, finendo giù per la rampa di scale. Dalla discoteca, due neri armati di pistole automatiche raggiungono i loro compagni, ma restano freddati dalla scarica sparata in rapida successione dalle precise mani femminili.
Poi la donna salta, volando sulla rampa, mantenendosi in equilibrio con il contatto delle pareti laterali. La traiettoria del salto raggiunge Boris che sta tirandosi in piedi, dolorante, e gli precipita con i lunghi tacchi sulla schiena.
Boris crolla definitivamente al tappeto, due acuminati pugnali s’infilano tra le scapole, sente rumore di ossa rotte. Quando riapre gli occhi ha davanti a sé la canna della sua pistola. Sposta lo sguardo e dietro l’arma vede la donna sorridere stizzosa.
<<Chi…Chi sei?>> è l’unica cosa che riesce a pronunciare.
<<Il mondo mi conosce come Madame Hydra. Sai perché ti dico questo, negro?>>
Boris stringe gli occhi. La pistola spara il suo ultimo colpo. Poi viene lasciata, insieme all’altra, accanto al cadavere di Boris. La donna esce in strada sistemandosi il cappello sulla testa. Ad attenderla trova la limousine nera col motore acceso, lo sportello aperto.
Sale a bordo dell’automobile e richiude lo sportello.
La limousine inverte la rotta con un’inversione a U e schizza nella notte, rombando.
Spengo la tv e mi volto dall’altra parte dando le spalle allo schermo. La porta si apre e Dugan entra venendomi contro. Mi infilo il sigaro tra i denti e aspetto che sia abbastanza vicino per parlare. Ma è lui a precedermi.
<<Che l’inferno t’inghiotta, Fury. È questo tutto il tuo sostegno? Gran bell’amico che sei!>>
Mi tolgo il sigaro di bocca e accenno una parola, ma anche questa volta vengo preceduto.
<<Che C##@! sta succedendo?! Spero tu abbia delle spiegazioni appropriate per quello che mi è successo stamattina! Spero che qualcuno sappia dirmi cos’è successo e perché sono stato trattato come uno dei peggiori terroristi che appestano la terra.>> apro la bocca, ma Dugan continua ad essere preso dal suo discorso, sbatte il cappotto su una sedia dicendo <<’Fanculo! Ma che cavolo significa? Chi è il bastardo che ha spifferato ai militari che sono un sfottuto terrorista? È così che funzionano le cose in questo paese?! Un giorno sei il vicedirettore dello Shield, il mattino dopo il tuo nome viene infangato e i militari ti entrano in casa a perquisirti per controllare se sei uno stramaledetto terrorista?! Ma in base a quale criterio!? E perché tu te ne stai zitto, senza dire una parola? Non te ne frega proprio un beneamato C##@! vero?! Già, mica è successo a te! È successo a me!>>
Mi tolgo il sigaro dai denti.
<<E non dire che fa parte della routine dopo quello che è successo alle torri gemelle, perché non resta giustificabile, anzi, mi preoccupa maggiormente sapere che il presidente può invogliare l’esercito a cercare probabili responsabili tra la gente comune, quella che non ha fatto un cazzo, quella che si batte ostinatamente contro i responsabili di tali orrori.>>
<<Se solo mi lasciassi parlare…>> dico infine.
<<Come?! Cosa ?! che hai detto?!>>
<<Ho detto che dovresti anche ascoltare le persone, invece di bersagliarle di domande!>>
Dum-Dum capisce l’antifona. Il suo battito è troppo accelerato, per questo si zittisce e si mette a sedere accanto il suo cappotto, sbuffando profondamente.
<<Bene.>> comincio rimettendomi il sigaro tra i denti, <<Appena ho saputo della sorpresa che hai ricevuto stamani, ho pensato subito di raggiungerti, ma per fortuna mi sono soffermato a riflettere. Dopotutto cosa avrebbero dovuto trovare i militari a casa tua? Non credo tu abbia niente da nascondere, quindi la mia presenza sarebbe stata solo d’impaccio, non so se capisci. È stato meglio così. I militari non hanno trovato niente e hanno dovuto constatare d’aver preso una cantonata.>>
<<Sì, ma che caspita ci sono venuti a fare proprio a casa mia? È questo che non riesco a capire! Perché sono venuti proprio da me?!>>
<<Chi lo sa?>> rispondo <<Sono venuti da te, potevano benissimo venire da me, magari lo faranno domani, ma non è questo che importa. L’importante è che non abbiano trovato niente, no? Che i loro sospetti vadano a farsi fottere! Ti consiglio di tornartene a casa, manca ancora mezz’ora alla fine di Sex and the city.>> l’espressione di Dugan mi lascia intendere che sono ancora capace di prendere il mio amico. Il vecchio tricheco è invecchiato, ma per certi versi è rimasto quello di una volta.
Bofonchia qualcosa, mentre accendo il visore sulla scrivania e gli prenoto un taxi che tra cinque minuti lo porterà a casa. Mentre lo guardo andare via, mi chiedo a cosa sarà servito dissuaderlo, visto che la situazione sta prendendo la piega che mi immaginavo. Mi chiedevo solo quando sarebbe successo. Ed adesso che il momento è arrivato, mi rendo conto che forse non sono preparato ad affrontarlo. New York, la città dalle mille luci. Da un paio d’anni, circa mille di quelle luci sono state spente bruscamente, ed adesso da questa finestra posso vedere un angolo di mare che prima mi era proibito di guardare. E so che non è ancora finita. No, questo è solo il principio.
Il taxi sfreccia sull’asfalto bagnato, oltrepassando l’incrocio con Dexter Street prima che il semaforo diventi rosso. Dum-Dum apre il cellulare, compone un numero ed aspetta che gli rispondano.
<<Suzy?>> dice appena sente la voce della vicina <<Sono Timothy. Come stanno i bambini? Bene. Dormono. Perfetto. Mi fa piacere che abbiano ripreso sonno. Io ho fatto prima del previsto, sono sulla strada di casa, dovrai sacrificarti per un altro paio di minuti. Si. Ah, Suzy, non so davvero come ringraziarti. Non avrei saputo come fare se non ci fossi stata tu. Si, sì lo so, stai tranquilla comunque, te la pago come una serata…>> le sue parole si perdono sotto lo stridio che emettono i freni del taxi.
L’auto gialla fa una decina di metri prima di fermarsi, mentre intorno piomba il buio più cupo, prima le luci della strada, poi quelle degli uffici che occupano i marciapiedi, come un domino tutte le luci si spengono. Dum-Dum guarda lo spettacolo improvviso che gli si offre dinnanzi senza dire una parola, il cellulare poggiato sull’orecchio.
Sulla destra i fari di un auto sbucano dal buio a folle velocità e si schiantano lateralmente sul taxi, i vetri anteriori vanno in mille pezzi. L’auto che colpisce il taxi continua la sua folle corsa con un testacoda, finendo contro la vetrina di un negozio di fiori. Ma non è l’unica insana scena. Le auto, abbandonate al buio della strada, schizzano da tutte le parti come una costellazione di comete impazzite. Dal cellulare abbandonato sul fondo del sedile del taxi la voce di Suzy ripete:
<<Timoty. Timoty. Cos’è successo Timoty?! Rispondi!>>
Un onda di oscurità avvolge New York nel suo buio.
MANHATTAN – CENTRAL OF SHIELD
Balzai dalla poltrona, il sigaro fumante tra dita inermi.
Lo spettacolo che mi prospettava la finestra era di quelli che ti capitano una volta sola nella vita. O almeno è quello che credi, finché non si ripete per un'altra volta. E come le altre volte che si era verificato, sapevo benissimo che avrebbe significato una lunga, lunghissima notte. L’onda di tenebre che avvolge New York raggiunge il Quartier generale dello Shield, per una frazione di secondo la luce si spegne dentro il mio ufficio, poi il generatore d’emergenza s’inserisce inserendo l’allarme, quello generale. Tra meno di cinque minuti le attività dentro il palazzo diventeranno così intense che sembrerà d’essere a mezzogiorno di lunedì. Invece è mezzanotte. L’orologio al polso di Nick ha entrambe le lancette unite, sovrapposte una sull’altra, dirette verso l’alto. Mezzanotte in punto! Come si fa ad essere così precisi?
<<Direttore Fury a rapporto!>> esclama una voce dal videofono sul tavolo.
<< Fury in ascolto.>> risposi <<Dirottate tutti i monitor sul satellite 11-B. Quando raggiungerò la Sala Controllo, voglio avere un quadro preciso di tutta New York. Contattate la compagnia elettrica, chiedete spiegazioni.>> staccai il microfono dal tavolo portandomelo dietro <<Rintracciate il comandante Dugan, gli agenti Pierci, Klemmer e McKenzie.>> uscii dall’ufficio continuando a impartire ordini <<Contattate le basi zone nord-sud-est-ovest, ditegli d’inviare una dozzina di aircraft in pattugliamento strategico.>> il corridoio si affollò di uomini che indossavano le uniformi d’emergenza.
<<Sarà fatto Direttore. C’è il Comandante Hopkins sull’altra linea che desidera parlare con voi.>>
<<Mettetemi in contatto con lui e restate in ascolto. Qualsiasi ordine possa essere impartito durante la nostra conversazione deve essere immediatamente eseguito. Voglio in linea anche il centro logistico e l’FBSA, passatemi Sitwell.>>
<<Va bene Direttore. Intatto la metto in contatto col Comandante.>>
Mi fermai davanti l’ascensore mentre alcuni uomini con gli elmetti mi affiancavano sulle cabine accanto la mia.
<<Fury!>> esclamò la voce dal microfono <<Sono Hopkins.>>
<<La ascolto, Comandante.>> dissi battendo il pugno contro le porte metalliche.
<<Direttore, il blackout ha già oscurato tutta Manhattan e si sta espandendo nelle zone limitrofe, privando d’energia anche le strutture ospedaliere.>>
<<Eravamo già preparati a un’evenienza simile, Comandante.>> dissi; le porte dell’ascensore si aprirono <<Contatti il Gruppo di Supporto Tecnico SHIELD e ordini al loro responsabile di collegare i generatori elettrici Beta e Ypslon a tutti gli ospedali colpiti dal blackout.>> guardai alla mia destra e feci segno agli agenti che avevano indossato l’equipaggiamento d’emergenza di usare il mio stesso ascensore per scendere. Cinque soldati entrarono nella cabina, gli altri restarono in attesa degli altri ascensori. Mi accodai a loro e schiacciai il pulsante del piano terra << Con la potenza di entrambi i generatori dovremmo mantenere gli ospedali delle zone centrali di New York almeno sino a domani mattina.>> le porte metalliche si richiusero alle mie spalle.
<<Il reparto sismologico ha segnalato l’epicentro del blackout proprio a Manhattan.>> disse il comandante Hopkins <<Sto inviando i dati alla rete, tra pochi secondi avrete il quadro della situazione davanti i vostri occhi, Direttore Fury.>>
<<Perfetto! Passatemi il centro logistico. Voglio conferire con McKennan.>>
<<McKennan in ascolto, Direttore!>> disse McKennan.
<<McKenna, spedisca tutti gli uomini a sua disposizioni a gruppi di tre per le strade della città. Dobbiamo evitare possibili scorribande di predoni che vogliono approfittare della situazione.>>
<<Sarà fatto Direttore!>>
<<Possibili responsabili del blackout?>> domandai.
<<È ancora presto per poter stabilire qualsiasi coinvolgimento, Direttore.>>
<<Non è mai troppo presto, McKennan. Voglio un rapporto in rete entro cinque minuti almeno sulle persone che non ne possono essere coinvolte.>>
<< Direttore Fury, il capo distaccamento Jones del GST chiede urgentemente di contattarlo sulla 2.>>
<<Mi sposto sulla 2. Restate tutti in ascolto.>> spingo la leva laterale al microfono di una tacca mentre guardo la pulsantiera, 24 – 23 – 22, non avevo mai fatto caso a come sono lenti questi ascensori << Fury in ascolto, Jones. Riferisca.>>
<< Direttore Fury, abbiamo azionato i generatori Beta e Ypslon. La Banca di New York e la CNN chiedono di avere smistata parte dell’energia per permettergli di poter operare.>>
<< La Banca di New York e la CNN? @C##, Jones, digli di andare a farsi @*#ç&##!. Non abbiamo tempo da perdere con queste str…>>
<< Direttore Fury, chiamata d’emergenza della Sorveglianza QG! I contatti con i sotterranei si sono interrotti. Sembra che le telecamere abbiano mostrato degli intrusi muoversi al livello-sotterraneo 6.>>
<<Degli intrusi al livello 6?>> tutto cominciava a diventare sempre più chiaro, e sempre più sfocato <<E come hanno fatto a mettere piede lì dentro?>>
<<Non l’abbiamo ancora capito Direttore, ma la cosa peggiore è che i sensori del livello-sotterraneo sei hanno rilevato, pochi secondi fa, presenza di materiale esplosivo.>>
Se avessi avuto l’altro occhio, li avrei spalancati entrambi. La luce rossa sulla pulsantiera era appena passata dal decimo al nono piano, quando il primo scossone fece tremare la cabina lasciandoci al buio. Ma solo per un attimo.
La vampa di calore salì per la tromba dell’ascensore e avvolse la cabina metallica su cui stavo scendendo Tutt’intorno l’acciaio e il cemento che costituivano la struttura portante del QG dello SHIELD, si squarciava, spazzato dall’improvvisa detonazione.
Coloro che guardavano dall’esterno, la vampa di luce che avvolse il palazzo dello SHIELD doveva essere sembrata un cerino gigante che si accendeva e in un unico sbuffo esauriva all’istante tutta la miccia, lasciando al suo posto uno sbuffo di polvere bianca. Una nuvola si sollevò da quella che un tempo era stata la dimora di un gruppo di uomini al servizio dell’ONU, soldati dediti a salvare il mondo dal terrore che lo imperversava.
Di quella grande e solida struttura, stanotte restava solo un cumulo di polvere bianca. Nient’altro.
A New York un altro squarcio si apriva indelebilmente agli occhi dei suoi cittadini, un altro angolo che lasciava respirare il mare.
TO BE CONTINUED…
Il Comandante Nick Fury disperso tra le macerie
New York soggiogata dalla
mancanza d’elettricità
Lascia straripare un fiume di
Caos
Una nuova organizzazione terroristica
si profila all’orizzonte
Attuando un terribile piano di
distruzione e morte
Niente sarà più come prima dal
prossimo numero dal titolo: